martedì 27 agosto 2013

Toglietemi tutto, ma non il mio Vanity Fair (più o meno)

Il postino mi aveva appena consegnato GQ di agosto e ho capito che fosse il momento di scrivere.
Nel 2007, quando all'inizio di giugno uscì la copertina di Vanity Fair con Kakà al top della sua carriera al Milan, stavo per compiere quattordici anni. Da brava tifosa prendo Vanity in edicola e in mano per la prima volta, scatta qualcosa e dopo un mese ero già abbonata.
Raccontavano le persone e le storie del mondo in un modo che mi lasciava senza fiato e piena di domande.
Il mio giornale arrivava a casa di venerdì, così avevo proibito alle amiche di anticiparmi la storia di copertina e ai miei familiari di aprire e sfogliare il giornale prima che tornassi da scuola.
Era un rituale a cui non potevo rinunciare: prima Mina, poi Capitani, poi Daria e la posta dei Direttore Luca Dini. Leggevo gli articoli senza conoscerne l'autore e giocavo ad indovinare chi li avesse scritti (Andrea Scarpa non mi sfuggiva mai).
I miei genitori non capivano perché non riuscissi a buttare via i vecchi numeri che si accumulavano. Mi sentivo compresa da tutti coloro che scrivevano di non poter fare a meno di Vanity Fair: c'era la mamma che tagliava a metà il giornale (pesantissimo) per leggerlo a letto e il ragazzo che lo leggeva di nascosto dalla fidanzata abbonata (e felice). Insomma, era proprio amore.
Ero una ragazzina che si affacciava al mondo attraverso quelle parole: le amavo proprio tutte, ma un po' di più quelle che uscivano dall'imprevedibile penna di Gabriele Romagnoli (ne ho già parlato, qui).
Ricordo i suoi pezzi come se li avessi letti ieri: il finto funerale nell'Estremo Oriente, tifo e divorzio direttamente dal Camp Nou, la storia della sua vita attraverso i suoi gatti, Fulton Street e prima ancora le storie dell'abbonato qualunque pescato a caso, perché – diceva – ognuno ha una storia da raccontare.
L'amore per raccontare le storie è venuto anche a me, che nei primi anni di liceo riempivo le colonne del giornale della mia città. Scrivo solo quando mi brucia dentro qualcosa, quando sento che la devo raccontare a qualcuno.
Poi, un giorno, il 25 gennaio 2011 – che tra l'altro compie gli anni Alessandro Baricco, altra pietra miliare della mia adolescenza – Gabriele parla dell'ultimo giorno a New York che non doveva esserci preannunciando il nuovo incarico di Direttore a GQ Italia. E' finita – dice – questo è il mio ultimo articolo. E poi parafrasando, che lo faceva per noi lettori, che il giornale gli aveva dato tanto, e chiudeva con un augurio malinconico citando Kant e lasciandoci una nuova lezione, proprio come ci aveva abituati.
Il mio abbonamento stava per scadere, Romagnoli se ne andava e così cedo alle insistenti minacce dei miei genitori e non rinnovo l'abbonamento. Facevo il quarto anno. Stavo per compiere diciotto anni. Ero una ragazza mai abbastanza illusa dall'amore, più innocente di quanto si pensasse, in fondo serena.
Smetto di leggere il mio giornale e contemporaneamente smetto di scrivere. Online o sulla carta non c'è quasi più traccia di me. Si avvicinava la maturità e i miei temi erano diventati sempre più aridi e meccanici, per compiacere la poco malleabile prof di Lettere che non capiva perché rifiutassi categoricamente l'analisi del testo.
In un anno perdo entrambi i nonni che mi hanno cresciuta: scrivo sì, ma solo i loro necrologi. La gente mi incontra per strada, proprio come faceva quando scrivevo delle morti di Michael Jackson o di Jade Goody anni prima, e mi dice di aver pianto leggendo le mie parole.
E' il 2013 e decido finalmente di abbonarmi a GQ: il mio cuore aveva fatto pace con Romagnoli, ero pronta a leggerlo di nuovo e a ricominciare a scrivere.
Col primo numero va tutto liscio. Dal secondo cambia il capitano della nave di Gentlemen's Quarterly e Romagnoli mi abbandona di nuovo. Poi scopro, per caso, l'altra settimana, comprando Vanity in edicola dopo due anni, che il capitano è rimasto solo ed è tornato a scrivere lì.
Io nel frattempo ho ricominciato a raccontare le cose, proprio come mi hanno insegnato sei anni fa.
Sfoglio le pagine del sempre mio giornale e mi salta all'occhio che hanno messo in palio un posto per la Scuola Holden, il mio sogno proibito (ormai un po' troppo mainstream e svuotatasche) e bellissimo di sempre.
Mi mangio le mani. Però lo scrivo lo stesso: il posto in palio era chi avesse mandato in redazione il migliore ritratto di una donna. Ho scritto, più o meno, il mio. Fiera di quello che sto costruendo, pronta a farmi le ossa in questo mondo che ci riserva sempre un mucchio di sorprese.
Non posso perdermi il Capitano Solo; ritornerò ad aspettare Vanity nella cassetta della posta.